
Nelle terre della bonifica del litorale romano
Quando noi romani pensiamo alle bonifiche la prima che ci viene in mente è la Bonifica Pontina completata durante il ventennio fascista e narrata, forse con eccessivo compiacimento, da Antonio Pennacchi in «Canale Mussolini».
Eppure c’è un’altra bonifica, che poi come vedremo sono tre, che ha avuto sullo sviluppo recente di Roma un impatto molto maggiore: quella della zona nord del litorale romano. Già perché tra la fine dell’800 e la metà degli anni ’30 del ‘900 quella zona paludosa tra la Fiumara grande (il ramo naturale della foce del Tevere) ed il Fosso dei Tre Denari a Passoscuro fu oggetto delle opere di bonifica che l’hanno resa ciò che è oggi: una delle aree più interessanti del Lazio dal punto di vista agricolo, balneare e naturalistico, talmente
dissonante rispetto alla restante parte del paesaggio tipico dell’Agro romano, a cui pure geograficamente appartiene, dal rappresentare il luogo ideale per girare le scene in esterna del felliniano «Amarcord», ambientato nella zona riminese della Romagna.
Roma ed il suo mare
Malgrado la relativa vicinanza al Tirreno e la presenza di un’importante via navigabile come il Tevere Roma non è mai stata una città marinara, né ha mai orientato il proprio sviluppo verso la costa.
Solo alla metà degli anni venti del ‘900, seguendo il disegno del regime fascista che avrebbe voluto costruire, dopo la Roma imperiale e quella papalina, una Terza Roma che, come recita l’iscrizione ancora presente sulla facciata del Palazzo degli Uffici dell’EUR, avrebbe dovuto espandersi lungo le rive del Tevere sino alle sponde del Tirreno, si è ipotizzato uno sviluppo urbano tra la città ed il mare e lungo la costa laziale.
Un disegno che, malgrado la realizzazione, proprio in quel periodo, della Ferrovia Roma Lido e di una strada di grande scorrimento come la Via del Mare, è stato attuato solo parzialmente anche a causa del secondo conflitto mondiale che fece abortire l’Esposizione Universale del ’42 ridimensionando fortemente, anche se non completamente, il ruolo di centro direzionale dell’EUR.
Due i motivi principali di questa mancata vocazione marinara di Roma e dei romani.
- Il primo legato alle origini agro-pastorali dei popoli che formarono il primo nucleo di Roma e che, nella città dei sette colli adagiata sulle sponde del Tevere, hanno fatto dei romani dei fiumaroli, piuttosto che dei marinai: la prima società di nuoto di Roma, ancora esistente, fu creata infatti a Roma, per insegnare ai romani i rudimenti del nuoto, solo nel 1889 sulle sponde del Tevere antistanti l’Augusteo.
- Il secondo, decisamente più rilevante, è da ascriversi all’andamento del Tevere e dalla quantità, ora consistentemente ridotta dalle varie barriere poste sul suo corso nel secondo dopoguerra, dei suoi sedimenti (che gli hanno fatto meritare l’appellativo di «biondo») così che, sin dai primi insediamenti alla sua foce (Ostium da cui ha preso il nome la cittadina di Ostia), è stato molto difficile gestire sia la stessa foce, sia le zone limitrofe che si sono trasformate prima in lagune e poi in paludi.

Questo fenomeno naturale ha innescato una serie di eventi.
- Il primo è stato l’allontanamento della costa, rendendo inutile il Porto costruito sotto Traiano e collegato al Tevere mediante un canale artificiale e questo ha favorito lo sviluppo, alla foce del fiume, della città di Portus, l’odierna Fiumicino, mentre Ostia, che con l’allontanamento della costa aveva perduto il suo ruolo strategico, venne progressivamente abbandonata e poi assorbita dalla palude trasformandosi in una straordinaria città fantasma praticamente intatta.
- Il secondo è stata la proliferazione, via via che le paludi si estendevano, di una variante locale e molto prolifera della zanzara Anopheles, il principale vettore della malaria scoperto dal medico ed entomologo lombardo Giovan Battista Grassi proprio nei suoi studi romani della fine del 1800.
Con la caduta dell’Impero romano e le invasioni barbariche seguite dalle incursioni saracene alla metà dell’anno 800 la popolazione di Ostia subì una drastica diminuzione innescando una spirale in cui i fenomeni naturali si sommavano all’incuria.
Così una zona un tempo densamente popolata e cosmopolita, che era arrivata nel periodo della sua massima espansione a contare sino a centomila abitanti con un forte influsso, tipico dei centri marinari commerciali, di popoli stranieri e che aveva fatto delle saline di Ostia uno dei principali siti di produzione del prezioso minerale, si trasformò in un luogo malsano e inospitale in cui vivevano stabilmente pochissime persone e vi lavoravano solo i più disperati tra i braccianti che si offrivano a giornata a Piazza Montanara.
Divisa tra il latifondo di proprietà nobiliare, come i Rospigliosi e poi i Mattei a Maccarese, o ecclesiastica, la zona della foce, che andava comunque protetta per assicurare la regolarità di quel trasporto fluviale che rappresentava la principale fonte di approvvigionamento di Roma, iniziò a puntellarsi prima di torri di avvistamento variamente fortificate poi di veri e propri castelli: a nord il Castello Rospigliosi, detto anche di San Giorgio, a Ostia il Castello di Giulio II.

Nel 1557 una delle piene più devastanti del Tevere,
la seconda per ordine d’importanza, dopo aver alluvionato Roma si riversò impetuosa alla foce del fiume deviandone il corso e portandolo nell’alveo attuale. La grande ansa nei pressi di Ostia, tagliata fuori dal nuovo corso del fiume, rimase quindi isolata creando quel braccio stagnante del Tevere detto Fiume Morto.
Gli effetti di questi fenomeni si avvertirono sino a Roma rendendo inospitale e malsana tutta la zona latistante il fiume sino alla Basilica di San Paolo fuori le mura. Pochi e mal gestiti furono i tentativi di risanamento durante il governo pontificio, rivelatisi semplici palliativi, il più importante dei quali fu la piantumazione di un fitto bosco di pini lungo tutto il litorale, da Castel Fusano all’odierna Fregene, creando quella pinete monumentali che ancora adornano in parte la costa laziale ai due lati della foce del Tevere.
Abituati a pensare ad Ostia, a Fregene ed al litorale di Maccarese sino a Passoscuro come una meta naturale ed alla portata di tutti per trascorrere qualche ora al mare, specie durante la stagione estiva, ed a Fiumicino come la sede dell’Aeroporto internazionale e il suo porto come l’approdo ideale per una mangiata di pesce fresco facciamo davvero fatica ad immaginare lo stato di quei luoghi prima delle bonifiche.
Eppure, malgrado le difficoltà e la falcidia della malaria, anche là, come attestano i dipinti dell’epoca, la vita continuava. Le paludi divennero ambite zone di caccia agli uccelli migratori e proliferarono gli allevamenti di bufali mediterranei, che oggi siamo portati a collocare molto più a sud, nella zona interna e lungo la costa della pianura pontina.

Nella seconda metà dell’Ottocento nella zona si contavano 1500 capi bufalini, 900 capi vaccini e 200 cavalli allevati allo stato brado e gestiti nei procoi in massima parte dai butteri maremmani: una parte della provatura che farciva i crostini delle trattorie romane veniva allora da questa zona inospitale.
Arrivano i ravennati
La nuova amministrazione italiana, che aveva fatto della regimentazione del Tevere uno dei suoi obiettivi anche a costo di stravolgere il centro di Roma con consistenti demolizioni, non poteva restare inerte di fronte a cotanto degrado ed il primo a spingere per la bonifica del litorale laziale fu Giuseppe Garibaldi. Oltre alla cronica assenza di capitali, tuttavia, mancavano a Roma sia le tecniche sia, soprattutto, la manodopera in grado di affrontare un’opera di così ampia portata ed i braccianti di Piazza Montanara, oltre che assorbiti da quella febbre edilizia che aveva contagiato la città, non avevano certamente le qualità occorrenti.
Sarebbe stato necessario ricorrere alla manovalanza di altre zone: trovare persone esperte nella bonifica delle paludi, ma abbastanza tenaci, o forse disperate, da affrontare il duro lavoro, le privazioni e la malaria.
L’occasione la fornì la situazione che alla fine dell’800 si era verificata in Romagna, nella zona del delta del Po un tempo parte dello Stato Pontificio. I contadini romagnoli, avvezzi a bonificare manualmente le loro terre da strappare alle paludi, nonostante i loro sforzi non avevano abbastanza terra per sfamare tutti e l’insensibilità dei latifondisti di fronte alle loro richieste di condizioni migliori li avevano spinti a politicizzarsi accendendo quella che Guccini avrebbe definito ne «La Locomotiva» la fiaccola dell’anarchia.

Nel 1883 si era costituita a Ravenna un’associazione di operai e braccianti
che aveva come leader il socialista Nullo Baldini, aveva dato prova di abilità e organizzazione nella bonifica nella pineta di Ravenna e che vide nel subappalto della bonifica del litorale romano un’occasione di riscatto e di autogestione. Nel novembre del 1884 partirono da Ravenna, salutati dalla banda cittadina, 500 uomini e 50 donne tra i 18 ed i 30 anni divisi in 10 squadre.
Arrivati a Roma il 25 del mese sotto una pioggia battente e preceduti dalla loro fama di rivoluzionari furono trattati come appestati: neppure il tempo di sgranchirsi le gambe che furono fatti proseguire per Fiumicino dove furono ricoverati in alloggi di fortuna ricavati dalle rare costruzioni ormai fatiscenti della zona e nel Castello di Giulio II.

Resistendo, con la loro tenacia, alle condizioni proibitive e alla malaria, quei ravennati non si arresero e, divisi tra sterratori e scariolanti, dopo sette lunghissimi anni sconfissero a forza di braccia (le prime idrovore arriveranno solo nel 1889), la palude ostiense guadagnandosi la stima ed il rispetto di quel Re Umberto I – che avrebbe paradossalmente trovato la morte per mano di un anarchico, Gaetano Bresci – al cui funerale, nello scandalo dei benpensanti, gli anarchici della bonifica inviarono una corona di fiori facendo inalberare non poco anche gli altri anarchici che vedevano in Bresci un eroe e nel Re un tiranno.
I primi effetti della bonifica di Ostia Antica
consentirono ai ravennati di farsi raggiungere dalle loro famiglie e di formarne di nuove senza perdere la loro identità costituendo, a tutti gli effetti, una piccola enclave romagnola sulla costa laziale che arrivò a battere una moneta tutta sua, inizialmente solo per la circolazione nell’ambito della colonia, ma poi accettata anche a Roma.
Di quelle fatiche sono rimasti nel borgo risanato di Ostia Antica un bassorilievo dedicato agli scariolanti e la lapide monumentale «Pane e Lavoro» posta nel 1904 in prossimità di uno dei casali di caccia in cui era stata aperta una piccola trattoria di cucina tipicamente romagnola a servizio dei braccianti, diventata di moda nel secondo dopoguerra col nome di «Ristorante al Monumento» quando iniziò ad essere frequentata da personalità e star cinematografiche, primo fra tutti Federico Fellini.
E così nella cucina romana
entrarono i tortellini con il ripieno di stracchino, il bollito alla romagnola, la lingua in salmì. Tanto abili nella bonifica i ravennati non lo furono però negli affari e così per arrotondare si spingevano sino ai mercati rionali di Roma per vendere i cocomeri ricavati dai semi della pregiata varietà ravennate al grido «taja ch l’è ross!».
Un grido che successivamente risuonerà, romanizzato in «taja ch’è rosso!», sin dagli anni ’30, quelli della prima fioritura del Lido di Ostia, e poi nelle bancarelle dei cocomerari estivi che ancora puntellano l’estate romana. Malgrado la bonifica la malaria non fu completamente debellata e per avere la meglio sulle Anopheles occorrerà l’impiego massiccio nel secondo dopoguerra del micidiale, e pericoloso, DDT.
La bonifica restituì a Roma quel prezioso gioiello archeologico che è l’abitato di Ostia Antica e tutta la costa a sud di Fiumicino nella quale tra la fine degli anni ’20 ed il secondo conflitto mondiale, grazie anche alla costruzione della Ferrovia Roma-Lido e della Via del Mare, si sviluppò il nucleo iniziale del Lido di Ostia consentendo anche ai fiumaroli romani di conoscere, finalmente, i bagni a mare.
A Maccarese arrivano di veneti
Malgrado gli sforzi dei ravennati la bonifica del litorale non fu completata: mancava, infatti, tutta la zona nord a partire da Fiumicino sino a Passoscuro.
Se la bonifica ostiense dei ravennati era improntata al cooperativismo quella che s’incentrò su Maccarese fu un tentativo di speculazione agraria condotto dal regime fascista nel periodo dal 1925 al 1936: lo scopo delle due concessioni alla Maccarese Società Anonima di Bonifiche (SAB), costituita dalla SGIBI – Società di bonifiche e irrigazione partecipata dalle principali banche nazionali, infatti, era quello di bonificare, valorizzare e rivendere i terreni a prezzo maggiorato grazie alle notevoli migliorie apportate e alle infrastrutture realizzate remunerando nel frattempo, con la produzione agricola per il mercato di Roma, il capitale impiegato.

Anche se non mancò il condizionamento del regime, seppure meno pressante rispetto alla contemporanea bonifica pontina, la bonifica di Maccarese e di tutta la zona nord si caratterizzò soprattutto per la sua pianificazione agricola. A seconda della natura dei terreni, infatti, se ne decise la destinazione: cereali, foraggi e ortaggi per le zone irrigue, vigneti per quelle collinari e sabbiose.
Mentre inoltre i ravennati si erano trovati ad operare in un deserto di paludi, per i nuovi coloni furono previste, oltre a 35 micro aziende agricole poste a distanza regolare, un centro civile a ridosso del Castello di San Giorgio, provvisto di ospedale, parrocchia, scuola, ufficio postale, negozi e officine ed uno industriale adiacente la stazione comprendente un silos per i cereali, la centrale per la raccolta del latte, una cantina per il vino, un magazzino per le macchine agricole e una stalla per l’esposizione e la vendita del bestiame.



Vennero inoltre realizzate la rete elettrica ed un acquedotto rifornito da pozzi artesiani. Se dal punto di vista imprenditoriale la bonifica, anche per la congiuntura internazionale, non ebbe i risultati sperati, che costrinsero prima l’intervento dell’IRI e poi, alla fine del ‘900 la vendita ai privati, sotto il profilo agricolo fu un successo e Roma poté godere di un costante approvvigionamento di derrate da una zona in precedenza degradata.

Le bufale, che come nella zona ostiense dominavano gli allevamenti, furono sostituite da vacche di razza alpina e olandese, tipicamente vocate alla produzione del latte e si allevarono muli e cavalli per l’esercito. Ad accorrere alla realizzazione della bonifica furono stavolta in massima parte i veneti in un periodo di grande depressione di quella regione.
In pochi anni la popolazione, con il progredire della bonifica, superò i cinquemila abitanti, ma l’Azienda agricola che dopo la bonifica prese in gestione i terreni accusò pesanti perdite, che la vendita di alcuni terreni e fabbricati agli ex coloni e ad aziende private come la Latte Sano non fu sufficiente a ripianare, e sopravvisse solo grazie all’intervento pubblico fino ad essere ceduta ai privati.
Uno scrigno veneto ancora parzialmente chiuso
A differenza di Ostia Antica, in cui, anche grazie all’area archeologica che con la bonifica fu finalmente portata alla luce, i ravennati si aprirono ai romani anche dal punto di vista gastronomico erigendo quel ristorante che ne rappresenta una sorta di ambasciata, i veneti di Maccarese sono rimasti a lungo una comunità chiusa. A questa chiusura hanno contribuito tutta una serie di fattori.
Innanzitutto la relativa autosufficienza alimentare della zona e, reciprocamente, il conferimento dei prodotti ad un’azienda centralizzata, ora la Maccarese SpA, e in parte, nel secondo dopoguerra, alla Latte Sano, derivata dall’acquisto di alcuni terreni dall’azienda agraria, allora pubblica, di Maccarese.

I vincoli urbanistici e paesaggistici,
con la creazione della Riserva del Litorale Romano che comprende anche la Riserva di Macchiagrande e le Vasche di Maccarese, che hanno preservato la zona dall’urbanizzazione intensiva, le naturali «barriere» al turismo di massa, rappresentate dall’imponente area dell’Aeroporto internazionale Leonardo da Vinci a Fiumicino e dalla vocazione elitaria di Fregene, hanno fatto il resto così che solo recentemente, con il restauro e la valorizzazione del Castello di San Giorgio, i discendenti dei primi coloni veneti hanno riscoperto e messo a disposizione dei buongustai le tradizioni gastronomiche dei loro progenitori a beneficio di un flusso turistico che, paragonato a quello di Ostia, rimane comunque relativamente contenuto anche durante la bella stagione.
Della cucina originaria dei veneti di Maccarese resta la memoria degli anziani come Maria Molon, che ha rilasciato una lunga intervista a Giovanni Zorzi:
«minestra, non ghe s’era pastasciutta. La carne se la dava na volta a la settimana, del pursell se magnaa tutto, se buttaa solo unge e pelo! Col pursell se fasea l’osso collo, pancetta, cudeghin, l’onto».
La curiosa storia delle Vasche di Maccarese
Merita un accenno l’Oasi del WWF delle Vasche di Maccarese, all’interno della tenuta di Maccarese. Negli anni ’70, infatti, si decise di ripristinare artificialmente, ed in modo controllato, le condizioni che nei secoli passati avevano fatto di Macccarese una riserva di caccia.
L’operazione commerciale non ebbe gli esiti sperati, la caccia fu vietata e si tentò la realizzazione, nelle stesse vasche artificiali, di un impianto di acquacoltura, anch’esso naufragato. L’abbandono che ne seguì creò le condizioni per la riserva naturale attuale che ospita una gran quantità di anfibi e di uccelli acquatici.
Torre in Pietra: la terza bonifica
L’ultima bonifica, la meno nota, è quella della tenuta di Torre in Pietra, attorno alla torre medievale di avvistamento da cui prende il nome, realizzata negli anni ’20 da un sodalizio d’imprenditori guidati da Luigi Albertini, storico direttore liberale del Corriere della Sera, e da suo genero, il Conte Nicolò Carandini, che acquistarono l’omonimo latifondo ormai in abbandono dopo l’estinzione dei Principi Falconieri, tra le più ricche famiglie della Roma barocca, che avevano fatto del Castello fortificato di Torre in Pietra uno scrigno di opere d’arte.
A differenza delle altre bonifiche quella di Torre in Pietra fu condotta, con successo, da un gruppo di facoltosi liberali che decisero di fare della tenuta un’azienda modello. Furono restaurati i manufatti medievali, creati una diga a Palidoro e nuovi centri agricoli, operata, con il massiccio impiego di mezzi meccanici, la bonifica con operai salariati specializzati provenienti anch’essi dalle bonifiche venete e romagnole.
Intercettando la nascente domanda di latte fresco nel mercato di Roma,
nel 1929 fu acquistato ad un’asta della Carnation Milk Farm di Seattle (negli Stati Uniti) il toro Carnation Producer di razza Frisona nordamericana, la più lattifera, il quale diverrà il capostipite dell’attuale razza Frisona Italiana. In seguito, con il marchio «Torre in Pietra» l’azienda si proporrà sul mercato del latte romano, soprattutto negli anni del boom, come naturale alternativa alla Centrale del Latte pubblica ed al Latte Sano della zona di Maccarese.
Tutt’ora gestita dagli eredi di Nicolò Carandini, l’azienda originaria ha nel tempo affiancato alla produzione agricola ed a quella del latte attività d’intrattenimento all’aria aperta.
Siamo giunti alla fine anche di questo percorso in cui, come sempre, ha fatto da filo conduttore, per guardare con occhi diversi luoghi che ci sono familiari, il cibo. La sua produzione in una terra un tempo malsana, la soddisfazione del suo bisogno da parte di lavoratori che scappavano dalla fame e che hanno preferito alla fame il rischio di ammalarsi di malaria.
La prossima volta che ci capiterà di gustare un succoso e dolcissimo cocomero proveniente da Ostia Antica o da Maccarese saremo in grado assaporarlo con maggiore consapevolezza: quel cocomero sa di lavoro e di dignità.
Al prossimo percorso.
Stefano Sorrentino

Alessandri 25 – Cucina Identitaria
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