Percorsi tra cibo e territorio

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La cucina romanesca

Il cibo è un elemento identitario che consente, superando le barriere, di entrare a contatto con la cultura
popolare di un territorio. Vale anche per Roma?

La domanda è assai meno scontata di quanto possa apparire perché, nell’affastellarsi di piatti in chiara
analogia con la cucina abruzzese, sabina e campana, c’è ancora chi dubita dell’esistenza di una cucina
autenticamente romanesca
: per andare alla ricerca delle radici di quella cucina popolare a cui pure i romani, per nascita o adozione, sono così visceralmente attaccati ancora oggi, o forse oggi più di ieri, occorre allora fare una passeggiata virtuale nella Roma in cui quella cucina è nata.

Ma andiamo con ordine.

Tra la cucina dell’Antica Roma, che possiamo definire romana, e quella popolare, la cucina romanesca
fissata dall’inizio del 1900 nei ricettari di Adolfo Giaquinto e Ada Boni e poi trasmessa e rielaborata da Livio Jannattoni e nelle poesie-ricette di Aldo Fabrizi, c’è un salto che non è solo quello temporale millenario, ma è di gusto, d’ingredienti, di sensibilità: c’è una sorta di vuoto, ma è solo apparente.
La cucina dell’Antica Roma arrivata a noi attraverso il «De re coquinaria» di Apicio e le sporadiche citazioni di Tacito, Marziale, Virgilio e Cicerone, era una cucina elitaria che esprimeva tutta l’opulenza ed il cosmopolitismo della Caput Mundi.

Da quella cucina, rivisitata profondamente, prenderanno spunto, internazionalizzandola, i testi classici della cucina della Corte papale, raffinatasi con la cattività avignonese, di Scappi, Messisbugo, Plàtina e Leonardi.

Della cucina popolare delle origini

non abbiamo per forza di cose tracce scritte, ma possiamo farcene un’idea prendendo a riferimento gl’ingredienti di quella cucina agro-pastorale che pure doveva aver formato le basi di quella arcaica romana: caseus, cioè formaggio ovino o caprino, ortaggi e legumi, come le fave e i lupini, polente di cereali, farro e miglio prima, grano tenero poi, lagane, cioé sfoglie di grano tenero cotte in forno e poi in brodo, olio d’oliva, visto che i Romani consideravano barbaro il burro, carne ovina, suina e di pollame.

Una cucina che si fa fatica quindi a distinguere dalle sue consimili popolari dell’Italia centrale e centro meridionale.

Quando e dove ha iniziato a caratterizzarsi la cucina romanesca?

Non si ha qui la pretesa di dare quella datazione o quella collocazione fisica che altri Autori non hanno fornito, ma qualche ipotesi è possibile formularla partendo da due elementi obiettivi: la conformazione fisica di Roma dalla caduta dell’Impero romano alla presa di Porta Pia (di cui forniscono ampia testimonianza le varie piante e viste di Roma, gli epistolari ed i resoconti di viaggio dei visitatori stranieri) e la millenaria propensione dei romani a consumare il cibo ed il vino al di fuori delle mura domestiche nelle varie «Tabernae», «Popinae», «Cauponae» e «Thermopolia» che, nel corso dei secoli, si sono trasformate prima in osterie, cioè mescite di vino, poi in osterie con cucina e infine in trattorie arrivando a costellare tutta la città e, come vedremo in un’altra occasione, la campagna ed i Castelli romani.

Poche culture popolari hanno in considerazione i cuochi come quella romanesca.
Ce lo testimonia Giuseppe Gioacchino Belli, che incontreremo spesso anche più avanti, col suo sonetto «Er coco» e che la cucina romanesca delle origini fosse una cucina di osteria e non di casa ce lo dicono alcuni
indizi.

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Innanzitutto i piatti, con gl’ingredienti ridotti al minimo:

il guanciale, buono sia per l’amatriciana sia per la gricia; i vari stufatacci e lessi rifatti: piatti di riciclo degli avanzi di carne arrostita o bollita da riproporre agli avventori in forma diversa; gli abbacchi «a scottadito» e gli arrosti di gallinacci tipici della cucina alla griglia all’aperto; i fritti in olio o strutto bollente da preparare direttamente in strada nei calderoni dei friggitori; il «quinto quarto», con la trippa su tutto, che consentiva anche ai meno abbienti di poter consumare un piatto di carne con poca spesa; l’assenza tra i piatti tipicamente romaneschi delle paste ripiene, che altrove sono frutto dell’abilità femminile casalinga e infine il rito, tutto romano, di celebrare le feste di famiglia andando a mangiare fuori: nella trattoria sotto casa o fuori porta, limitando all’essenziale i pasti casalinghi come ci ha raccontato Belli ne «La bbona famijja».

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Oltretutto, in quell’affastellarsi medievale in cui si era trasformata la Roma sino alla fine del 1800, nella quale, ironizzò Gregorovius, il medioevo terminò solo con l’arrivo degli italiani, era difficile cuocere anche una semplice braciola senza scatenare le ire del vicinato: ce lo riferisce, ancora una volta, il Belli ne «La cuscína de sotto».

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Viaggiatori, pittori, incisori, poeti e letterati

ci hanno tramandato infatti una Roma ridotta demograficamente, con una successione di antichi palazzi nobiliari e case fatiscenti attaccati gli uni alle altre e concentrata a ridosso del Tevere in quell’area densamente popolata che andava dall’Isola Tiberina, con alle spalle il Campidoglio e l’area del Teatro di Marcello, sino a Piazza del Popolo oltre la quale, e in gran parte anche al suo interno, le ville ed anche zone un tempo discretamente edificate erano state sostituite da vigne, orti e soprattutto campi incolti in cui pascolavano liberamente pecore e capre.

Al di là del fiume l’agglomerato di Trastevere, alle pendici del Gianicolo, si dipanava lungo il fiume da Porta Portese, col Porto di Ripa Grande, alle spalle del quale l’imponente complesso del San Michele ospitava l’ospizio dei poveri, a Porta Settimiana passando per San Francesco a Ripa, Santa Cecilia, Piazza in Piscinula, San Crisogono e Santa Maria in Trastevere con Via della Scala.

Per trovare le origini della cucina romanesca non resta allora che mettersi in cammino iniziando da uno dei centri nevralgici della Roma di allora: Piazza Montanara perché è qui, o forse un po’ più avanti verso l’attuale Piazza Cairoli, che con ogni probabilità essa è nata in continuo dialogo, più che contaminazione, con quella degli ebrei di Roma.

Gli accessi al Ghetto

erano regolati da porte che venivano aperte al mattino e chiuse al tramonto. Le più antiche erano: Rua, Regola, Quattro Capi, Ponte e Pescheria.

Facciamo però un passo indietro, si fa per dire, di tre secoli rispetto alla Roma del Belli (che è della metà del 1800) e andiamo a quel 14 luglio del 1555 in cui Papa Paolo IV Carafa emanò la bolla «Cum nimis absurdum» («Poiché è oltremodo assurdo») nella quale, tra molte odiose restrizioni, impose agli ebrei la creazione di un Ghetto chiuso con delle cancellate (che verrà abolito solo con la presa di Roma del 1870)
nell’area del Rione Sant’Angelo tra il Tevere ed il Teatro di Marcello in cui, nel corso degli anni, aveva preso dimora un gran numero di ebrei che erano una presenza stabile cittadina sin dai tempi dell’Antica Roma.

Chiusure e restrizioni che innescheranno una «cucina di necessità»

che coniugava i precetti religiosi ebraici con gl’ingredienti più poveri, perfettamente in sintonia con una città in cui il cibo, che pure giungeva copioso, era una delle questioni principali della vita quotidiana.
A pochi passi da Porta Pescheria, tra il Teatro di Marcello e la Rupe Tarpea, sorgeva, appunto, Piazza
Montanara che spesso ritorna nei sonetti del Belli come ne «Ar bervedé tte vojjo».

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Piazza Montanara, spazzata via dalla costruzione della Via del Mare (tra Piazza Venezia e l’area archeologica di fronte alla Bocca della verità) nel delirio urbanistico fascista d’isolare, desertificandole, le
vestigia di Roma, era l’alter ego popolare di Piazza Navona e vi si poteva incontrare ogni congerie di persone visto che era frequentata da nobili, borghesi e letterati in cerca di avventure amorose popolari,
come la bella Faustina Antonini di cui s’invaghì Goethe, commercianti e semplici cittadini che si approvvigionavano nelle piccole botteghe collocate nei fornici del Teatro dove operavano anche gli scrivani pubblici, braccianti e «burini» che vi si radunavano la mattina presto per essere presi a giornata dai caporali.

Passata la porta Pescheria del Ghetto,

a Sant’Angelo in pescheria c’era il mercato di quel pesce che arrivava innanzitutto dal Tevere, ricco di pesce d’acqua dolce come le ciriole (le piccole anguille) e gli storioni, e dall’opposta sponda del fiume, la Renella, dove approdavano le barche dei pescatori che risalivano il fiume da Ostia.

Nonostante le restrizioni il Ghetto continuò ad essere una delle zone pulsanti del commercio cittadino.
Del resto esso era posizionato in una zona in cui si concentravano i principali porti fluviali: il porto Tiberino, che occupava l’area dove oggi sorgono gli uffici comunali (che per i romani resteranno sempre l’Anagrafe) appena fuori Monte Savello e via del Portico d’Ottavia, e poco più distante, sulla sponda opposta del fiume, Ripa Grande che alimentava, come lo sarà successivamente la Stazione di Roma Porta Portese della linea ferroviaria Roma-Civitavecchia edificata nel 1859, quel traffico terrestre che, passando per l’Isola Tiberina, si concentrava essenzialmente su Ponte Cestio da Trastevere e Ponte Quattro Capi, l’attuale Ponte Fabricio, detto popolarmente Pons Judeorum, di fronte al quale vi era, come abbiamo visto, una delle porte del Ghetto, quella Quattro Capi.

Siamo appena usciti dal Ghetto e ci siamo affacciati sul Tevere e senza accorgercene siamo già proiettati nella Roma post-unitaria perché i nostri piedi poggiano sui cosiddetti Muraglioni, i nuovi argini del Tevere che, sulla spinta emotiva della piena del Tevere del 28 dicembre 1870, spinsero la nuova amministrazione capitolina di stampo italiano a ridisegnare completamente il rapporto tra Roma ed il suo fiume con le prime demolizioni necessarie alla costruzione, su entrambe le sponde, dei nuovi argini e dei nuovi collettori.

Se da allora il centro di Roma fu sostanzialmente risparmiato delle alluvioni del fiume, un’intera economia edun intero tessuto sociale furono letteralmente spazzati via come i porti fluviali divenuti in gran parte inutilizzabili.

Lungo le sponde del Tevere

c’erano ad esempio i mulini galleggianti: ve n’è rimasta traccia in una lapide del 1626 posta nella Cappella della Congregazione dei Molinari nella basilica di San Bartolomeo all’Isola, sull’Isola Tiberina.

Non solo mulini e non solo pesce perché lungo il Tevere, nel Rione Regola (la zona intorno a Via Giulia per intenderci), si concentrava, prima che Leone XII facesse costruire nel 1825 il Mattatoio Flaminio fuori Porta del Popolo, la maggior parte dei macelli privati e pare che la famosa coda alla vaccinara, che la tradizione vuole inventata a Testaccio nelle trattorie appena fuori del mattatoio nuovo (costruito tra il 1888 ed il 1891), sia in realtà nata parecchi anni prima a Regola, dove la chiesa di Santa Maria della Quercia (nell’omonima piazza della Quercia) fu affidata nel 1532 alla Confraternita di S. Maria della Quercia dei Macellai di Roma.

Abbacchi, uova, ricotta e gallinacci venivano direttamente da quella campagna romana giunta a lambire la città edificata e con essi quei burini che poi si radunavano a Piazza Montanara a prendere lavoro a giornata.

Quanto al maiale,

caposaldo della cucina romanesca, tradizione vuole che i maestri nella sua lavorazione fossero i «norcini» (nome popolare dei nursini, cioé degli abitanti di Norcia, già Stato Pontificio), che si riunivano in Confraternita nella Chiesa dei Santi Benedetto e Scolastica all’Argentina.

Per la diffusione della pastasciutta come alimento popolare, invece, come del resto accadde in gran parte d’Italia, occorrerà attendere la fine del 1800 e un pastificio, il Pantanella, posizionato in Via dei Cerchi dove oggi ci sono gli uffici comunali in un’area all’epoca discretamente industrializzata, sarà la prima fabbrica di Roma.

Nel frattempo la pasta secca, come il pomodoro, prima il Casalino, coltivato con diverse varianti in tutto il basso Lazio, poi quello dell’agro sarnese detto San Marzano che diverrà prevalente, camminavano sulla Via Appia, la Regina Viarum da cui provenivano anche i latticini campani, molisani e pugliesi (la cosiddetta
provatura che farciva i crostini) e buona parte dell’olio d’oliva, come quello di Venafro in Molise, cantato anche da Orazio.

Dalle altre vie consolari, Flaminia e Salaria soprattutto, grazie a quel legame ininterrotto tra Roma, la zona di Bolsena, la Sabina ed i loro prodotti, arrivavano le anguille e gli oli extravergini d’oliva Sabino e Caninese, mentre il vino, manco a dirlo, era quello delle vigne dei Castelli. Torniamo in strada.

Fatte poche centinaia di metri di Lungotevere de’ Cenci, costeggiando il Tempio Maggiore (a Roma detto
semplicemente la Sinagoga) eccoci a Via Arenula e neppure ci accorgiamo di trovarci in un’altro sventramento ottocentesco ai danni della Roma medievale.

Costruita alla fine del 1800 in collegamento con i Muraglioni, la via, che qualche anno dopo ospiterà, anche qui a prezzo di consistenti demolizioni, l’imponente Ministero della Giustizia, collegava i Lungotevere, di cui s’intuì immediatamente la potenzialità di asse viario, con la zona dei Teatri: l’Argentina ed il Valle costituendo, con il nuovo ponte dedicato a Garibaldi e la Via del Re (oggi Viale di Trastevere), costruita anch’essa a prezzo di consistenti demolizioni, un inedito asse viario perpendicolare al fiume. A farne le spese fu tutta una Roma popolare, commerciale e culinaria.

La costruzione di Via Arenula,

infatti, oltre a comportare la distruzione della piccola chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio alla Regola affidata alla Confraternita della Santissima Annunziata dei cuochi e pasticcieri ed in cui era sepolto Bartolomeo Scappi determinò l’interruzione di quell’asse viario, l’antica Via Florea (che ora è in parte coperta da Via dei Giubbonari e Via del Pellegrino), che collegava attraverso il Ghetto Piazza Montanara con Ponte Sant’Angelo passando per il mercato di Campo de’ Fiori.

Lasciamo alla nostra destra il Ghetto non senza aver assaggiato i carciofi alla giudia, vanto degli ebrei
romani, ed aver gustato una fetta di crostata di visciole e ricotta anch’essa collegata ad una delle tante
restrizioni a cui furono soggetti gli ebrei romani.

Nel 1775 Papa Pio VI nell’Editto sopra gli ebrei vietò infatti lo scambio tra ebrei e cristiani di carne, latte, formaggi e latticini e cosa fecero gli ebrei romani? Inventarono un dolce: la crostata di ricotta ricoperta da uno spesso strato di confettura di visciole e da un disco di pasta frolla, uno scrigno di bontà nato per superare i controlli pontifici.

Torniamo su Via Arenula e c’infiliamo per la Via Florea (ormai siamo di casa) verso Campo de’ Fiori ed il
frastuono dei turisti è nulla rispetto a quello che si doveva sentire ai tempi del Belli visto che in questa zona fiorivano tutta una serie di attività artigianali e gli artigiani si sa che hanno poco tempo per mangiare a pranzo e sono i clienti migliori delle piccole trattorie, delle friggitorie e dei venditori ambulanti di cibo.

Delle trattorie e osterie

s’è già detto e in quella zona ce ne dovevano essere parecchie visto che buona parte di esse resisterà, prima di trasformarsi in locali alla moda, sino alla fine degli anni ’70 del ‘900: dell’interclassismo che le permeava ci danno testimonianza i dipinti della metà del 1800 come quello, famosissimo, del danese Carl Heindrich Bloch, in cui un popolano, coltello alla vita, sembra «imbruttire» al pittore, colpevole forse di uno sguardo di troppo alle commensali che guardano con interesse lo straniero, mentre sullo sfondo tre uomini in abiti borghesi condividono un tavolo ed un bucaletto di vino mentre un gatto soriano sembra fare il verso al popolano nell’imbruttire al pittore.

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Osteria-Carl-Bloch foto web

Degli ambulanti, invece ci restituisce un prezioso spaccato il «Ritratto di Quelli che Vanno Vendendo et
Lavorando per Roma» nel 1582 dall’incisore milanese Ambrogio Brambilla in cui troviamo una varietà
impressionante di cibo di strada, dolce e salato, mentre per le friggitorie, o meglio i friggitori (spesso
improvvisati direttamente in strada) possiamo aiutarci con le incisioni di Bartolomeo Pinelli o con un sonetto, «Er Friggitore», stavolta post-unitario, di Amilcare Pettinelli.

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Con il sonetto di Pettinelli ed i suoi rimpianti siamo già scivolati nella Roma italiana, quella dell’invasione
della nuova media e piccola borghesia impiegatizia che da tutta l’Italia unificata si riversò a Roma e costruì a sua immagine e somiglianza la «nuova Roma»: quella dei quartieri residenziali come i Prati di Castello, il
Ludovisi o l’Esquilino sino a San Giovanni e che grazie alla «febbre edilizia» devastò le ville storiche, riempì gli orti e le campagne dentro e appena fuori le mura sulle due sponde del Tevere, cambiò in pochi decenni il volto della città.

L’asse economico si spostò progressivamente verso questa nuova classe sociale borghese, laica e
discretamente istruita che a Roma era praticamente sconosciuta.

Cambiò anche, nel corso di pochi decenni, la geografia economica: all’Ostiense fu spostata la produzione
del gas che era inizialmente nell’area del Circo Massimo, fu realizzata la Centrale Montemartini per la
produzione di energia elettrica, furono eretti i nuovi Mercati Generali mentre il fiume, ormai inaccessibile,
perse il suo ruolo di asse commerciale malgrado il nuovo porto industriale realizzato all’Ostiense.

Resistette, a Trastevere, la Manifattura dei tabacchi, ma restò un fatto isolato e Porta Portese, da cui un
tempo transitava buona parte delle merci che alimentavano il commercio cittadino, divenne sinonimo di quel curioso e marginale mercatino domenicale cantato da Claudio Baglioni.

Nacque anche una nuova classe sociale che non sfocerà però mai in «operaia» nel senso tradizionale,
quella degli addetti a nuovi servizi: ferrovieri, operai del gas e dell’energia elettrica, lavoratori del mattatoio pubblico, facchini dei Mercati Generali, tipografi, che iniziarono ad occupare zone un tempo scarsamente urbanizzate come San Lorenzo, Testaccio, l’Ostiense a ridosso dei nuovi stabilimenti.

Cambiarono gli orari della città, con la nuova borghesia declinata esclusivamente al maschile che ora
andava a pranzo a casa accudita da una figura femminile tutta vocata alla cura della casa, e quindi della
cucina, del marito e dei figli, e cambiarono le abitudini alimentari perché questa nuova borghesia, come del resto stava accadendo in tutto il Paese, fu sedotta dalla cucina, a sua volta borghese, di Pellegrino Artusi che voleva spazzare via i dialettalismi per creare una cucina autenticamente ed unitariamente italiana.

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friggitore_pinelli foto web

Arrivarono i nuovi osti che rivendicarono le proprie origini e la loro cucina: sardi ed abruzzesi in particolare, ma anche i napoletani con le loro pizze.

E la cucina romanesca si radicalizzò: nacquero, attorno alle osterie del bel tempo che fu, le «libere società»
come gli spaghettari di Trastevere e Roma, che si era sempre identificata nei suoi rioni si scoprì «romana» e da romana «creò» una «sua» cucina che rielaborò i piatti della tradizione belliana, ne inventò di nuovi e per dargli lustro di fatto li retrodatò: non molto, quel tanto che bastava a collocarli «prima»: prima dell’invasione «dei bersaglieri» (e quindi degli italiani), degli sventramenti risanatori (che con la costruzione di Corso Vittorio e di Corso Rinascimento distrussero anche la residua unità urbanistica e sociale dell’ansa del Tevere) e della trasformazione dei burini di Piazza Montanara in muratori: forza lavoro necessaria alla costruzione frettolosa e disordinata dalla nuova città e che con la crisi edilizia, frutto dello scoppio della bolla speculativa della febbre edilizia, andarono costruendo i primi baraccamenti quando non dormivano direttamente sotto i portici e negli androni delle chiese.

La Roma di «prima» del Vittoriano, chiamato con disprezzo dai romani «la macchina per scrivere», coi suoi marmi abbacinanti e quella presenza così ingombrante e dissonante proprio a ridosso del Campidoglio, del cuore di Roma.

Lo stesso «prima», a ben vedere, che possiamo riconoscere nell’arte, con la popolarità delle incisioni di
Pinelli
o degli acquerelli di «Roma sparita» di Ettore Roesler Franz, nel cinema di Gigi Magni e nella
commedia musicale «Rugantino» che ad ogni edizione riempie il Teatro Sistina.

La dissoluzione, sociale, edilizia ed economica del centro belliano si completò con il Fascismo, le vere e
proprie deportazioni verso le nuove e lontane borgate in cui vecchi romani sfrattati da quel centro ridotto a
puro palcoscenico del regime si unirono, non senza contrasti, ai nuovi.

Resistettero, almeno sino al secondo dopoguerra, gli stereotipi di rione: i monticiani, i regolanti, i trasteverini e poi i testaccini, ma iniziò ad imporsi come una sorta di titolo nobiliare il «romano di sette generazioni»: una figura quasi mitologica.
L’assimilazione dei nuovi romani sarà graduale e incompleta e laddove non arriverà la lingua, perché
malgrado gli sforzi dei nuovi poeti romaneschi il dialetto faticherà a decollare come elemento distintivo e
identitario
, arriverà la cucina.

Sarà l’ultimo salto, il definitivo, compiuto dalla cucina romanesca tra il primo ed il secondo dopoguerra
perché dopo di esso ogni innovazione sarà vista con sospetto se non con avversione.

Adolfo Giaquinto, cuoco di valore, ma anche poeta romanesco, sua nipote Ada Boni, Alfredo Di Lelio
(inventore delle famose fettuccine che portano il suo nome), Cesaretto Simmi con le sue fettuccine alla
papalina, Severino Severini, con quel locale a Piazza Zama involontario protagonista di «Totò Truffa», ed in misura diversa Aldo Fabrizi, che troverà notorietà in età ormai avanzata grazie al cinema e alla televisione, e sua sorella Elena detta «Sora Lella», solo per citare i più noti, furono al contempo custodi e creatori della «nuova cucina romanesca» e come tali riconosciuti dai cuochi loro contemporanei: i vecchi e quelli delle nuove trattorie popolari che sorsero di pari passo con la nuova città che inglobava le vecchie osterie «fuori porta».

La loro opera fu sostenuta dai media: i giornali, che iniziarono a pubblicare inserti di cucina, le riviste femminili, come «Preziosa» di Ada Boni, le prime trasmissioni radiofoniche di contenuto culinario tenute dalla stessa Boni e più tardi il cinema.

La cucina romanesca divenne riconoscibile e riconosciuta, praticata nelle case dai vecchi e dai nuovi romani, ricercata nelle trattorie dai turisti e dai divi del Cinema che approdavano a Roma per girare a Cinecittà.

Si potrebbe obiettare che raccontata in questi termini la cucina romanesca abbia una storia talmente recente da rasentare la contemporaneità, ma è .proprio la sua evoluzione a tratti confusa, la sua capacità di
appropriazione, che le ha consentito di farsi allo stesso tempo identitaria ed inclusiva: mangiare romanesco, cucinare romanesco, anche per i nuovi arrivati dalle sponde opposte del Mediterraneo è, qua forse più che altrove, segno di appartenenza e di condivisione: vuol dire essere toccati da quella mano di Mamma Roma che ti fa romano anche se le tue origini si perdono chissà dove.

In fondo la cucina romanesca è un atto d’amore, come nella cacio e pepe de rispetto de «La dieta» di Luca
Barbarossa .

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E con la cacio e pepe de rispetto siamo giunti alla fine del racconto.

Ci attende ora un altro percorso: quello della cucina romanesca «fuori le mura» e dei Castelli.

Ne parleremo

Stefano Sorrentino


2 risposte a "Percorsi tra cibo e territorio"

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