La cucina romanesca nel Cinema

La cucina romanesca nel Cinema

La cucina romanesca nel Cinema

Una delle rappresentazioni di Roma più utilizzate dal Cinema, che a Roma è «di casa» sin dal 1905, cioè da quando fu fondata la Manifattura Cinematografica Alberini & Santoni con sede e stabilimento, il primo in Italia, nell’attuale Via Veio appena fuori Porta San Giovanni, è quella che vede attovagliati i protagonisti, normalmente in una trattoria, più raramente tra le mura domestiche.

Dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri è stato tutto un susseguirsi di scene iconiche che hanno come sfondo Roma a tavola e spesso permettono anche di ricostruire, dai dialoghi dei protagonisti, ciò che realmente hanno mangiato.

È un altro percorso del rapporto tra cibo e territorio solo che stavolta il territorio è quello immaginato da autori, sceneggiatori e registi ed è grazie al lavoro degli appassionati (ed al sito davinotti.com/location) che possiamo riconoscere i luoghi reali, quelli che in gergo cinematografico si chiamano «location», in cui le scene sono state materialmente girate anche se poi questo ha un’importanza relativa perché conta, piuttosto, il luogo che gli autori del film volevano raccontare.

Iniziamo dalla scena cult del film «Un americano a Roma»

di Steno del 1954, quella in cui Alberto Sordi-Nando Mericoni, disgustato dall’improbabile intruglio di «cibo americano» che si è preparato, si avventa sul piatto di spaghetti che gli era stato lasciato dai suoi,
rigorosamente coperto da un altro piatto come si usava una volta.

La casa di Nando è in Via di Santa Maria in Monticelli nel Rione Regola, a due passi dal Ghetto e infatti nelle scene immediatamente precedenti si vede Nando davanti al Portico d’Ottavia.

Ovviamente ci si è chiesti come fossero conditi gli spaghetti e qualcuno ha provato anche a rifarli basandosi sulle immagini. Il film è in bianco e nero e questo certo non aiuta, ma è probabile che quella su cui si avventa Nando sia una familiare cacio e pepe, più difficile sia una burro e parmigiano detta
a Roma, per ragioni facilmente intuibili, «pasta dei cornuti».

Comunque una pasta in bianco che raffreddandosi tende ad ammassarsi: lo si capisce dalla prima forchettata quando gli spaghetti si sollevano tutti assieme.

Un americano a Roma Alberto Sordi
foto da wikipedia

Il termine «maccarone» usato da Sordi, che qualcuno ha correlato ai maccheroni, cioè alla pasta fresca, è solo un’altra americanata di Nando, che riecheggia il termine con cui la pasta italiana è indicata in tutto il Nord-America: The Macaroni Journal, ora The New Macaroni Journal, era all’epoca ed è tutt’ora la rivista ufficiale dei produttori di pasta nordamericani.

Steno si ripeterà, con un’altra scena iconica di spaghetti tentatori, stavolta a colori e senza dubbio con pomodoro e basilico, nel film del 1959 «Un militare e mezzo». Ad essere ammaliato, sino a soccombere, dal fumante piatto di spaghetti, è Aldo Fabrizi, autore anche del soggetto del film, nei panni dell’arcigno Maresciallo Giovanni Rossi.

In un gioco di specchi col film del 1954 gli spaghetti sono stati preparati da Betti, la moglie americana di Renato Rascel-Nicola Carletti: un cinquantenne romano tornato dagli Stati Uniti con la famiglia americana e obbligato a fare il servizio militare, a cui si era sottratto andando in America in cerca di fortuna, e finito sotto le grinfie del severo Maresciallo Rossi.

Pochi dubbi sulla location visto che Fabrizi e Rascel raggiungono la casa del secondo in taxi ed è lo stesso Rascel a dare l’indirizzo al tassista: siamo in Via delle Fornaci, 43 vicino San Pietro.

È invece del 1961 La favola, diretta da Antonio Pietrangeli

con soggetto dello stesso Pietrangeli e, tra gli altri, di Ettore Scola ed Ennio Flaiano, «Fantasmi a Roma». Nel cast troviamo Eduardo De Filippo, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Tino Buazzelli. È proprio quest’ultimo, nei panni del fantasma Fra Bartolomeo di Roviano, a far scegliere a don Annibale di Roviano, un nobile decaduto interpretato da Eduardo, un sano minestrone che lui stesso ha aggiustato di sale in un’esilarante scena ambientata nella cucina di una trattoria, frutto di fantasia, collocata nella stessa via della Pace in cui, nell’antico palazzo di famiglia (Palazzo Gambirasi) vive, circondato dai fantasmi, don Annibale.

foto da wikipedia

Più o meno degli stessi anni sono due film cult firmati Age & Scarpelli: «I soliti ignoti» ed il suo ideale seguito «Audace colpo dei soliti ignoti».

Nel primo l’improbabile banda guidata da Vittorio Gassman-Peppe er Pantera buca la parete sbagliata ed invece che nella stanza della cassaforte del Banco dei Pegni si ritrova in una cucina casalinga. Qua la location è incerta, ma la scena memorabile ci fa vedere l’interno di una cucina romana della piccola borghesia dell’epoca in cui i protagonisti, abbandonato il colpo, finiscono col mangiare la pasta e ceci lasciata in un pentolino e trovata dal magrissimo e perennemente affamato Carlo Pisacane-Capannelle il quale guarda con meraviglia uno dei primi frigidaire, che non sa aprire, e si avventa sugli
involtini che vi sono contenuti.

Nel secondo è ancora protagonista Carlo Pisacane-Capannelle che spende parte del bottino per una mangiata pantagruelica che lo porta dritto in ospedale con un «infarto de panza». Il contenuto del «frugale pasto», si fa per dire, consumato da Capannelle al Ristorante Corsetti 1921 in Piazza San Cosimato a Trastevere, uno dei più rinomati dell’epoca, viene letto al capezzale di Capannelle da Nino Manfredi direttamente dal conto del ristorante:

antipasti misti, agnolotti, trippa, abbacchio, ossobuco, zuppa di pesce, dolci, macedonia, caffè, liquorino, fagioli col tonno, per un totale, allora enorme, di 7.500 lire.

Del 1961 è invece «Totòtruffa ’62»,

film ad episodi con la coppia Totò-Nino Taranto passato alla storia per la scena della vendita della Fontana di Trevi al turista italoamericano Decio Cavallo interpretato da Ugo D’Alessio.

Totòtruffa '62
foto da wikipedia

Nell’episodio intitolato «La truffa del vespasiano», la vittima è Severino Severini, titolare del prestigioso ristorante stellato «Severino a Piazza Zama», all’Appio-Latino, al quale Totò e Nino Taranto tentano di spillare del denaro sotto la minaccia di piazzare davanti al locale uno sgradevole e maleodorante vespasiano.

Sempre del 1961 è «Totò, Fabrizi ed i giovani d’oggi» di Castellano e Pipolo in cui i due straordinari attori, grandi amici nella vita reale, interpretano il ruolo di due futuri consuoceri perennemente in lite. La trattoria, poi ristorante utilizzato anche da Carlo Verdone in «Viaggi di nozze», in cui le rispettive famiglie tentano, invano, la pacificazione tra i due è il «Paradiso terrestre» a Capannelle, tra l’Appia e la Tuscolana.
Ė Fabrizi ad ordinare per tutti: s’inizia con le fettuccine con le rigaglie di pollo, un classico domenicale della cucina romanesca.

Da Severino a Piazza Zama
foto dal web

Ad interpretare nella finzione cinematografica la proprietaria della trattoria è Elena Fabrizi, la «Sora Lella» che due anni prima aveva già aperto la famosa trattoria, che ancora porta il suo nome, a Via Quattro Capi sull’Isola Tiberina e che certo non ebbe alcuna difficoltà a calarsi nel ruolo.

Qualche anno dopo, nel 1966, Elena Fabrizi interpreterà se stessa nella sua trattoria che fa da sfondo ad una delle scene di «Scusi, lei è favorevole o contrario?» diretto ed interpretato da Alberto Sordi e che affronta il tema del divorzio che sarà introdotto da lì a qualche anno, nel 1970.

trattoria sora lella roma
foto sito Trattoria Sora Lella Isola Tiberina

La sortita nella cucina della Sora Lella di Alberto Sordi-Commendator Conforti offre l’occasione per citare due piatti tipicamente romaneschi: l’amatriciana e la stracciatella, il brodo in cui viene sbattuto l’uovo che, appunto, si straccia, con l’aggiunta di maggiorana, che a Roma si chiama persa. Undici anni dopo, nel 1972, sarà Federico Fellini, nel suo autobiografico «Roma», a fornire uno spaccato della cucina romanesca della trattoria sotto casa che a Roma ha un ruolo del tutto particolare.

La scena che c’interessa è stata girata a Cinecittà, ma è in realtà ambientata a Via Albalonga, che si dirama da Piazza Re di Roma, nel quartiere di San Giovanni, in cui Fellini abitò da studente dal 1939 ed ha tra suoi protagonisti lo stesso Fellini giovane, interpretato da Peter Gonzales Falcon.

Siamo in piena estate alla vigilia del secondo conflitto mondiale ed il giovane Fellini,

appena arrivato a Roma in una caotica Stazione Termini, raggiunge Via Albalonga dove ha preso una stanza da un’affittacamere. La sera stessa del suo arrivo il giovane Fellini viene coinvolto in questa cena nella trattoria «Dar Vesuviaro», nome di fantasia, con i tavolini all’aperto ai margini dei binari del tram che al suo passaggio li sfiora. L’atmosfera a dir poco informale che permea l’intera scena esprime tutta la sensibilità di Fellini nel cogliere lo spirito romanesco.

La trattoria di strada come una sorta di appendice del tinello di casa, da frequentare anche durante la settimana, con i bambini che si rincorrono tra i tavoli, lo scambio di battute tra gli avventori ed il personale e persino un litigio tra due innamorati.

Dar Vesuviaro trattoria  romana Fellini

La scena è anche l’occasione per ritrovare, al momento delle ordinazioni, i piatti romaneschi con l’immancabile cacio e pepe e la pajata servita ad un imbarazzatissimo giovane Fellini che non è in grado, per timidezza ed educazione, di rifiutarla pur non avendola, da romagnolo, mai assaggiata. Va notato che Via Albalonga, ora semi-centrale rispetto allo sviluppo caotico della Roma del secondo dopoguerra, all’epoca in cui è ambientato il film era una delle teste di ponte dell’urbanizzazione del quartiere Appio-Latino, che si completerà solo negli anni ’60, e distava poche centinaia di metri dai resti di quegli stabilimenti cinematografici di Via Veio che abbiamo citato all’inizio e che, dopo aver assunto il nome di Cines, erano stati distrutti, nel 1937, dall’ennesimo incendio che ne aveva costretto il trasferimento a Via Tuscolana in quella che in seguito sarebbe diventata Cinecittà.

Fellini nel film coglie uno degli aspetti della romanità più autentica:

l’osteria, poi trattoria, come luogo di aggregazione, come avamposto di romanità nella periferia, sempre più anonima, che col tempo è diventata preponderante rispetto a quel nucleo, in gran parte svuotato prima dal piccone risanatore piemontese e poi dagli sventramenti fascisti, che era stata la Roma popolare e popolarmente gastronomica del periodo preunitario. Un fenomeno, quello della trattoria sotto casa, che si è ripetuto praticamente identico fino alla fine del secolo scorso, di pari passo con la crescita esponenziale di una periferia che, abbandonata ogni velleità di programmazione urbanistica, è stata dominata dalla speculazione dei cosiddetti palazzinari che l’hanno edificata in modo disordinato secondo le opportunità offerte dal mercato e dalla politica.

A partire dall’Unità d’Italia e da quella febbre edilizia che convertì in muratori i contadini dell’agro romano e tutti gli altri attirati a Roma dalle nuove opportunità di lavoro, i primi nuclei di case periferiche di Roma sono stati quasi sempre dei piccoli borghi, «i borghetti» che ancora si ritrovano nella toponomastica, in massima parte abusivi e poi risanati, sui quali si sono innestate le borgate dell’edilizia popolare, destinate ad accogliere coloro che avevano perduto le case a seguito delle demolizioni del centro storico, gli sfollati del secondo conflitto mondiale e la maggior parte delle famiglie più povere giunte a Roma a con la migrazione interna o a causa di eventi internazionali come nel caso dei profughi istriani.

Alle borgate dell’edilizia popolare si sono poi appoggiati,

sfruttandone i servizi essenziali come le strade e le condutture, i quartieri residenziali, le palazzine appunto, popolati in massima parte dalla piccola borghesia del boom economico. Agglomerati per lo più isolati, scarsamente collegati dalla viabilità e ancor più scarsamente serviti dai mezzi pubblici in cui la concentrazione dei lavoratori dell’edilizia chiamati ad edificarli in tutta fretta ha stimolato l’apertura delle prime osterie di periferia che in seguito, man mano che i nuovi quartieri prendevano forma, si sono trasformate in trattorie talvolta prendendo il posto delle vecchie osterie fuori porta, più spesso improvvisandosi come templi dell’autentica cucina romanesca o proponendo la cucina delle regioni di provenienza dei loro titolari.

Le stesse trattorie che, con la progressiva metamorfosi dei quartieri da popolari in borghesi, effetto della dilatazione urbana che ha spostato sempre più lontano le nuove periferie rendendo semi-centrali le vecchie, si sono trasformate prima in rinomati ristoranti, oggi in locali alla moda.

La scena «Dar Vesuviaro» del film di Fellini,

pur nel suo essere frutto di un misto tra memoria e fantasia, rappresenta una situazione che negli anni si sarà ripetuta centinaia di volte in contesti simili, in una città alla perenne ricerca di una sua stabile identità e che in parte la ritrovava nella sua cucina di casa, più frequentemente in quella della trattoria sotto casa.

In «C’eravamo tanto amati», il film di Scola del 1974 con la magistrale interpretazione di Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli e che narra sogni e disillusioni della generazione della Resistenza, troviamo invece un altro classico della cucina romanesca delle trattorie: la «mezza porzione… abbondante». Un escamotage per ridurre porzioni e prezzi a beneficio dei giovani romani del secondo dopoguerra pieni di sogni, ma sempre senza una lira in tasca. «Il Re della mezza porzione» è il nome della trattoria in cui i tre amici ex partigiani si ritrovano subito dopo la Liberazione a parlare dei loro progetti futuri davanti ad una pasta e ceci e poi, nelle battute finali, a brindare alla loro amicizia, come i tre moschettieri, con le forchette alzate con infilzati i rigatoni (presumibilmente all’amatriciana) e infine a fare del lesso alla picchiapò l’occasione per trarre un bilancio fallimentare delle proprie vite. La trattoria, realmente esistita, si trovava a Piazza della Consolazione, ai piedi della Rupe
Tarpea.

Ancora Ettore Scola e ancora una trattoria dal nome di fantasia:

«Arturo al Portico» fanno da sfondo, ne «La cena» del 1998, all’intreccio di storie personali degli avventori e del personale.

Arturo al Portico trattoria fil La Cena 1998
foto dal web

Nel film, accanto ad una strepitosa Fanny Ardant, che fa da filo conduttore alla storia, Scola ritrova il Gassman e la Sandrelli di «C’eravamo tanto amati» con il primo che, al momento di ordinare il secondo, chiede una «mezza porzione…abbondante»: un «easter egg» in omaggio al film del ’74 che pochi forse avranno notato.

Il film, nella sua coralità, fornisce l’occasione a Scola per testimoniare la profonda trasformazione della ristorazione romana: le vecchie trattorie sono diventate locali alla moda, i menù si sono conformati alle nuove tendenze e vi hanno fatto ingresso i carpacci e la rucola: Stefania Sandrelli che si mangia anche con gli occhi la trippa alla romana di fronte alla figlia disgustata che le annuncia l’intenzione di diventare novizia, appare magistralmente dissonante in un ambiente in cui i drammi dei protagonisti sono tutti a
bassa voce ed a luci soffuse, insapori ed incolori come i nuovi piatti.

Nel film fanno la loro comparsa i primi telefoni cellulari, mentre un superbo Riccardo Garrone, nei panni dell’anziano cameriere di sala, si rifiuta di portare il ketchup alla famiglia giapponese, con l’immancabile macchina fotografica, che vorrebbe aggiungerlo alla carbonara.

A rivelare il carattere autobiografico de «La cena» sarà, quasi dieci anni dopo, un documentario del 2015 : «Il segreto di Otello» diretto da Francesco Ranieri Martinotti nel quale, a cento anni dalla nascita Giuseppe Caporicci, detto «Otello», viene ripercorsa la storia del ristorante, già trattoria, «Otello alla Concordia» a cui si accede sia da Via Mario de’ Fiori sia da Via della Croce a due passi da Piazza di Spagna.

Nei primi anni del secondo dopoguerra

il locale attirò, grazie ai prezzi abbordabili ed alla disponibilità di Otello a fare credito («segnare», come si dice a Roma), una clientela del tutto particolare: i cineasti allora emergenti, quegli autori, sceneggiatori e registi che fecero della trattoria, dotata di uno dei rari telefoni, il loro ufficio.

Qui s’incontravano, per mangiare, bere un bicchiere di vino, chiacchierare o per interminabili partite a carte, Ettore Scola, Mario Monicelli, Federico Fellini, Pierpaolo Pasolini, Citto Maselli, Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Furio Scarpelli, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Solinas, Age e molti altri.

Si può dire, allora, che buona parte della Commedia all’italiana sia nata da Otello e sia stata amorevolmente coccolata dalla cucina romanesca di sua moglie Nora. Uno dei frequentatori della trattoria di Otello era, come detto, Mario Monicelli, autore anche de «Il Marchese del Grillo», cinico nobile romano interpretato da Alberto Sordi.

Per fare colpo sulla bella Olimpia Martin, interpretata dall’avvenente Caroline Berg, il Marchese, travestitosi da popolano come nella scena della partita a carte e del celeberrimo «scusate, ma io so’ io e voi…», la porta a mangiare in un’osteria in cui gli vengono serviti i rigatoni con la pajata la cui natura di budella è rivelata brutalmente alla sua ospite da un arrabbiatissimo Marchese appena aggredito dalla moglie del perennemente ubriaco Gasperino er carbonaro che lo ha scambiato per il marito: una rivelazione, quella della straordinaria somiglianza con Gasperino, da cui il Marchese prenderà lo spunto per uno dei suoi scherzi più riusciti.

il Marchese del grillo Alberto Sordi
foto wikipedia

Al documentario in onore di Otello ha partecipato anche Luca Barbarossa legittimato dall’essere il nipote di «Forbicetta d’oro»: il barbiere, romanista, di Via della Croce amico e rivale calcistico del laziale Otello e suo avversario in interminabili partite a scopone.

Luca Barbarossa, peraltro, è anche il protagonista del videoclip della sua canzone «La dieta» che utilizza alcuni piatti della cucina romanesca: la cacio e pepe, la picchiapò, la coratella, come metafora di una travagliata storia d’amore.

Scritto e diretto da Paolo Genovese affiancato da Rolando Ravello, il video, girato in una enorme cucina professionale, è interpretato, oltre che da Barbarossa nei panni di un cameriere, dai due Chef Anna Foglietta e Marco Giallini forse in questo momento l’attore più rappresentativo della romanità contemporanea.

Pur avendo citato, anche per ragioni di spazio, solo le scene più note in cui fa la sua comparsa o addirittura è protagonista la cucina romanesca non si fa fatica a comprendere come il Cinema abbia ereditato il ruolo, che fu già della poesia romanesca, di rappresentare le mille sfaccettature della romanità e quindi anche della cucina di Roma.

Segno tangibile che a Roma cultura popolare, territorio e cucina romanesca sono inscindibili.

Al prossimo percorso.

Stefano Sorrentino

Alessandri 25 – Cucina Identitaria


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